Comitati delle feste

Norme di condotta

dettate dal Sinodo diocesano di Alghero-Bosa

1. I Comitati hanno il compito di organizzare le feste religiose per le quali si costituiscono. Per poter assumere l’organizzazione di festa religiosa popolare con la capacita di raccogliere fondi, presso i fedeli della comunità, i comitati devono essere riconosciuti dall’autorità ecclesiastica.
2. I componenti i Comitati devono essere battezzati, credenti e sentirsi membri della Chiesa.
3. Il Parroco è membro di diritto di ogni Comitato che si costituisce per la celebrazione di una festa religiosa popolare. E senza la sua presenza non possono essere eletti i membri del direttivo e le cariche sociali: presidente, vicepresidente, cassiere e segretario. Lo stesso parroco fa parte di diritto del direttivo.
4. Ogni comitato una volta costituito deve essere notificato con l’elenco dei componenti al Vescovo dal Parroco.
5. I comitati devono programmare le manifestazioni tenendo conto del carattere religioso della festa, e quindi evitare i trattenimenti che, a giudizio dell’autorità ecclesiastica, siano in contrasto con la fede e con la morale cattolica. Devono sempre concordare gli orari con il Parroco evitando che vi siano altre manifestazioni all’ora delle principali funzioni religiose.
6. Le celebrazioni per la parte religiosa sono di esclusiva competenza del Parroco: sarà lui a determinare programmi, orari, ecc. Il comitato si sobbarcherà l’onere finanziario di ricompensare in modo congruo i celebranti le sacre funzioni, i predicatori, i cantori, gli addobbi della Chiesa, i fiori, ecc.
7. La celebrazione della Messa solenne, la predica, i Vespri e l’eventuale processione sono i momenti più importanti della festa e tali devono essere considerati. Per questo motivo i membri del comitato devono partecipare in gruppo con la bandiera a dette celebrazioni. E sono anche caldamente invitati ad accostarsi ai Sacramenti.
8. Tutte le manifestazioni, anche quelle esterne, devono essere in consonanza col carattere religioso della festa e devono essere approvate dall’autorità Ecclesiastica.
9. Durante lo svolgimento delle principali funzioni religiose è vietato tutto ciò che può creare disturbo alle celebrazioni.
10. Le offerte che si raccolgono durante le celebrazioni religiose della festa sono di pertinenza della Parrocchia o della Chiesa se ne ha il diritto.
11. Ogni comitato deve avere un suo libro di contabilità, dal quale risultino tutti gli incassi e le spese, con le annuali vidimazioni da parte del Parroco. I bilanci preventivo e consuntivo devono essere sempre controfirmati dal Parroco e devono essere resi pubblici.
12. Si consiglia che ogni comitato accantoni annualmente una certa percentuale non simbolica dell’incasso per opere di carità, per esigenze del culto, per il decoro della Chiesa, eventuali manutenzioni, ecc.

Concilio Plenario sardo

Estratto dal capitolo XVI, La pietà popolare, degli atti del Concilio Plenario sardo della Conferenza Episcopale sarda.

112. La pietà popolare nella nostra Isola
1. Il popolo sardo è sempre stato un popolo con una religiosità innata, intimamente e quasi pudicamente vissuta a livello personale, eppure manifestata ed espressa in forme artistiche e corali di grande e fervente celebrazione. Esso custodisce un suo millenario patrimonio di tradizioni religiose cristiane, armonizzando, secondo un proprio timbro inconfondibile, apporti provenienti nei secoli dal Nordafrica e dall’Oriente bizantino, dalla penisola italiana e da quella ispana. Per questo motivo il presente Concilio sente fortemente il dovere di esortare i fedeli della Sardegna a riconoscere con gratitudine il patrimonio di devozione cristiana che essi hanno ricevuto dai loro Padri e Madri nella fede e a ravvivare quella stessa fede.
2. Parliamo qui esplicitamente di “pietà popolare” volendo intendere in modo preciso con questo termine la “vera devozione” cristiana popolare, che deriva dalla fede genuina [1], e che perciò non deve essere confusa con il sentimentalismo devozionistico, né con la creduloneria vagamente religiosa o apertamente superstiziosa. Essa è congiunta con “la volontà di darsi prontamente a ciò che concerne il servizio di Dio” [2] ed è espressione esteriore di una religiosità interiore “bene orientata”, radicata nella gente [3]. In essa si esprime il linguaggio singolare di una parte del popolo di Dio e il suo proprio modo di parlare e di vivere, di credere e di celebrare.
3. La pietà popolare trova la propria radice e natura nel suo essere espressione viva della fede di un “popolo sacerdotale”, il quale orientando e consacrando a Dio il proprio mondo vitale e l’intera realtà creata [4], dà alla fede il colore e il sapore più genuini di un vissuto e di una cultura originali e irrepetibili. La pietà popolare, tuttavia, è ricca e vulnerabile insieme: esposta a forme di superstizione e a deformazioni, nello stesso tempo è ricca di valori. Se ben orientata “essa manifesta una sete di Dio che solo i semplici e i poveri possono conoscere; rende capaci di generosità e di sacrificio fino all’eroismo, quando si tratta di manifestare la fede; comporta un senso acuto degli attributi profondi di Dio: la paternità, la provvidenza, la presenza amorosa e costante; genera atteggiamenti interiori raramente osservati altrove al medesimo grado: pazienza, senso della croce nella vita quotidiana, distacco, apertura agli altri, devozione” [5]. Proprio questa sua ambivalenza esige che le nostre comunità cristiane abbiano per essa un’attenzione che le renda capaci di coglierne i valori evangelici e di correggerne le deviazioni.
4. La pietà popolare sarda si manifesta anzitutto nelle espressioni comunitarie: le novene, i tridui, le veglie in preparazione delle feste specialmente della Madonna e dei Santi patroni; le processioni; i pellegrinaggi ai santuari nell’Isola; le celebrazioni extraliturgiche della settimana santa; la Via Crucis; le feste patronali; la venerazione delle reliquie. Durante il tempo della novena per le feste di alcuni santi, il popolo usa dimorare nei locali costruiti intorno al santuario, nei “muristenes”, o “cumbessias”, o “novenariu”. Particolarmente sentite e significative sono le processioni legate a tali feste, o durante la settimana santa e la Domenica di Pasqua. Sono realtà che una parte del popolo sardo vive intensamente, da protagonista, coralmente. In esse la gente riacquista la dimensione comunitaria e festosa, superando il suo istintivo individualismo, riconoscendosi come parte del tutto, e fuoriuscendo dal chiuso della vita quotidiana.
5. La pietà popolare si manifesta, inoltre, a livello individuale, nelle cosiddette “pratiche” di pietà personale, legate alla sicurezza di precise formule, espressioni e gesti tradizionali, invariati: preghiere del mattino e della sera; visita al SS.mo Sacramento; recita della corona del rosario mariano o di “coroncine” a Santi; recita dell'”Angelus”; accensione di candele alla Madonna e ai Santi; offerta di ex-voto; venerazione di statue sacre; uso di medaglie; richiesta di benedizioni.
6. Nell’ambito di questa pietà popolare sono fioriti i canti e le preghiere in lingua sarda. Sono per lo più formulari di antiche novene, preghiere che accompagnano diverse azioni della giornata e situazioni varie; poesie e canti: “gosos”, canti per il Natale, per la settimana santa.

[1] Cf. Lumen Gentium n. 67.
[2] TOMMASO D’AQUINO, Summa Theologiae, II–II, q. 82, art. 1.
[3] Cf. PAOLO VI, Evangelii nuntiandi, n. 48.
[4] Cf. Lumen Gentium, 34.
[5] PAOLO VI, Evangelii nuntiandi, n. 48.

113. Interrogativi di fronte ad attuali manifestazioni legate alla pietà popolare
Le espressioni di pietà popolare sopra descritte, il cui frutto dura sino ad oggi, manifestano quale profonda azione pastorale, capillare e popolare, le comunità cristiane, che ci hanno preceduto, abbiano saputo esprimere nei secoli. Ma la stessa pietà popolare oggi si esprime in tempi, ritmi, occasioni e strutture profani, non sempre compatibili con il culto liturgico della Chiesa e le sue irrinunciabili esigenze. Inoltre, le motivazioni che spingono oggi la gente a partecipare alle feste popolari religiose sovente non sembrano più riconducibili a “vera pietà” cristiana e sembrano esprimere altra cosa dal desiderio di entrare nel Mistero di Cristo e nella sua vita, senso ultimo del vero culto cristiano. La dimensione “religiosa” cristiana delle feste nate dalla pietà popolare sovente diventa marginale: emergono e tendono a imporsi aspetti ludici e valori profani e talvolta paganeggianti, che prevalgono sui valori religiosi, i quali vengono disattesi, ignorati o anche profanati. Nella programmazione della festa talora si dà spazio a manifestazioni non accettabili dal punto di vista della visione cristiana della vita. Anche se vengono celebrati riti liturgici e la presenza a questi è numerosa e corale, essendo sentita ancora da molti come irrinunciabile, resta l’interrogativo sulla natura e la profondità di questa partecipazione.
Non si può evitare la domanda: è un prendere parte al Mistero di Cristo, che obbedisce alla volontà del Padre sino alla croce? È una partecipazione che provoca conversione? Del resto, si constata che la partecipazione degli uomini adulti e dei giovani, maschi e femmine, va sempre più diminuendo, proprio per ciò che riguarda la parte religiosa e specialmente la celebrazione liturgica. Quanto appena evidenziato conferma che le espressioni religiose nate dalla pietà popolare nella nostra terra, hanno oggi bisogno di una decisa opera pastorale a livello locale, diocesano e regionale.

114. I criteri dell’impegno pastorale nei confronti della pietà popolare
1. Il Concilio riconosce il profondo significato teologico dell’autentica “pietà popolare”, in quanto modo di esprimere il sacerdozio battesimale che accomuna il popolo di Dio. Riconosce la grande opportunità che ancora oggi essa offre all’opera della Chiesa per l’evangelizzazione e la santificazione del nostro popolo. Riconosce, però, anche la necessità di un’attenta vigilanza e l’urgenza di adeguati interventi pastorali affinché essa sia sempre espressione di autentica fede e di intensa vita cristiana e non sia inciampo che fa deviare da esse.
2. Le forme concrete e le espressioni particolari della pietà popolare sono frutto di una catechesi efficace [6] e di una profonda inculturazione liturgica [7], che hanno coinvolto nel credere e nel vivere, oltre l’espressione linguistica, la pienezza della persona e la totalità socio-culturale del gruppo umano: corpo e spirito, fantasia ed intelligenza, sentimento e ragione, creatività e ordine, canto e danza, rievocazioni e rappresentazioni, simboli e istituzioni [8]. La pietà popolare, nella sua vena genuina, è espressione di aneliti di preghiera e di vitalità carismatica. Di fronte a celebrazioni liturgiche eseguite con precisione formale, ma talvolta fredde e distanti, quasi senz’anima, la pietà popolare riattiva il ruolo partecipativo del popolo, ridona spazio alla gratuità dei gesti e alla ricchezza simbolica ed espressiva dei segni, esprime in modo vitale la comunicazione circolare tra Dio e il suo popolo. Essa può offrire alla liturgia un dinamismo di creatività che, se umilmente colto, dà indicazioni e stimoli al non facile compito di incarnare la preghiera della Chiesa universale nel “genio” della comunità locale. La prassi secolare e il magistero della Chiesa accolgono e raccomandano la pietà popolare, perché la vita spirituale non si esaurisce nella sola partecipazione liturgica, ma passa attraverso i pii esercizi del popolo cristiano, purché “siano conformi alle leggi e alle norme della Chiesa” e purché siano “ordinati in modo da essere in armonia con la sacra liturgia, derivino in qualche modo da essa e ad essa, data la sua natura di gran lunga superiore, conducano il popolo cristiano” [9]. Il punto decisivo è che la pietà popolare sia orientata e animata in modo da essere per le “masse popolari un vero incontro con Dio in Gesù Cristo” [10].
3. La celebrazione liturgica realizza il suo effetto di lode di Dio e di santificazione delle persone là dove i gesti rituali esteriori vengono vissuti interiormente e spiritualmente. La stessa dinamica va perseguita negli esercizi della pietà popolare: non dovranno esaurirsi nei gesti esteriori – recitare una novena, seguire una processione, accendere una candela, appendere un ex-voto, toccare una statua – ma attraverso questi gesti essi dovranno aprire una strada interiore al fedele perché egli si inserisca nel piano di attuazione della volontà di Dio e del suo regno.
La Chiesa ha un duplice compito fondamentale:
a) seguire con attenzione, curare e rinnovare l’espressione esterna della pietà popolare: gesti e parole, tempi e luoghi, modalità;
b) operare positivamente perché l’atteggiamento interiore di chi la esprime, sia atteggiamento di vera fede cristiana e di adesione alla volontà di Dio.
Non si deve contrapporre liturgia e pietà popolare, ma accogliere questa come strumento di accostamento, inserimento e partecipazione al Mistero di Cristo, che in pienezza di ecclesialità e di efficacia si vivrà nella liturgia. Si devono positivamente far diventare i momenti di espressione della pietà popolare preziose occasioni di evangelizzazione, di catechesi, di indicazioni per la vita morale, e di costruzione della comunità.

[6] Cf. GIOVANNI PAOLO II, Catechesi tradendae, n. 53.
[7] Cf. CONGREGAZIONE PER IL CULTO DIVINO E LA DISCIPLINA DEI SACRAMENTI, La liturgia romana e l’inculturazione, nn. 28–29.
[8] Cf. Catechismo della Chiesa cattolica, nn. 1674–1676.
[9] Sacrosanctum Concilium, nn. 12–13. Cf. Catechismo della Chiesa cattolica, nn. 1674–1679; CEI–COMMISSIONE EPISCOPALE PER LA LITURGIA, Il rinnovamento liturgico in Italia a vent’anni dalla Costituzione conciliare “Sacrosanctum Concilium”, n. 18.
[10] PAOLO VI, Evangelii nuntiandi, n. 48.

115. Orientamenti operativi
1. Si riconoscano e si applichino le raccomandazioni, gli orientamenti e le norme che le diverse Chiese locali della Sardegna e i loro Pastori hanno espresso, specie nei loro Sinodi diocesani.
2. Si sottolinei sempre, nel rispetto delle tradizioni e delle peculiarità delle singole feste religiose popolari, l’elemento propriamente cristiano e spirituale delle celebrazioni di pietà popolare, in particolare attraverso la preparazione accurata della festa da parte della comunità cristiana. I sacerdoti responsabili curino che la predicazione sia una vera evangelizzazione e un’aggiornata catechesi, mettendo in risalto quegli elementi della festa o del Santo che mostrano al vivo il mistero pasquale della nostra salvezza e le esigenze di conversione personale e sociale che derivano da ogni celebrazione cristiana.
3. I parroci e i rettori delle chiese e dei santuari non devono semplicemente eseguire le celebrazioni popolari organizzate da altri, quasi “subendole”. Non devono a priori considerarle i momenti più ricchi di vitalità cristiana per le proprie comunità: ciò è da verificare; per renderle tali, essi devono con equilibrio pastorale, con rispetto e con fermezza realizzare un’opera di presenza nel tessuto socio-religioso-culturale del proprio ambiente, per valorizzare e purificare quanto la tradizione degli antenati ha lasciato. Non si considerino le tradizioni popolari come istituzioni così ferree da impedire ogni creatività. Questa anzi aiuta il permanere e il rinnovarsi continuo delle feste stesse e la partecipazione più consapevole e attiva delle nuove generazioni.
4. Le celebrazioni delle feste popolari della Madonna e dei Santi siano sempre meglio inserite nel ritmo dell’anno liturgico, al cui centro sta l’evento della Pasqua del Signore Gesù. È necessario riconsiderare il calendario di tali feste in modo da non porre in secondo piano “il giorno del Signore”, specialmente nei tempi forti dell’anno liturgico, né, segnatamente, le solennità del Signore.
5. I festeggiamenti civili devono essere, per quanto possibile, in sintonia con la festa cristiana e il mistero religioso che viene celebrato. Per questo i comitati organizzatori delle feste devono avere l’approvazione dell’autorità ecclesiastica. In essi il parroco, o un suo delegato, dev’essere presente, e i programmi devono essere decisi, per quanto possibile, in accordo.
6. Nelle feste della pietà popolare vengano rivivificati in particolare due elementi tipici nella nostra Isola: il pellegrinaggio e la partecipazione ai sacramenti della Penitenza e dell’Eucaristia in modo che le feste, anche quelle “campestri”, diventino reale occasione di conversione, in un contesto comunitario gioioso. Si curi che diventino “tradizione popolare” anche nuovi cammini di preparazione cristiana a tali feste.
7. Si curi che le feste siano occasione e incentivo per la solidarietà e la condivisione. Perciò si operi in modo da spingere gli organizzatori e i comitati a evitare sprechi negli addobbi – illuminazione, fiori – e negli altri apparati esteriori, e a stabilire la norma che una percentuale delle offerte dei fedeli sia destinata per opere di solidarietà.
8. Nella formazione dei seminaristi, sia negli studi teologici, sia nelle esperienze di ministero, venga rinnovato lo studio e l’amore per le tradizioni liturgiche [11] e la storia agiografica della Sardegna, alla luce delle recenti acquisizioni; inoltre, affinché gli studenti di teologia siano meglio attrezzati a comprendere e a favorire i rapporti tra fede, pietà popolare e cultura, vengano inseriti nei programmi della Pontificia Facoltà Teologica della Sardegna adeguati studi di antropologia culturale in rapporto alla religiosità sarda. Gli operatori della catechesi, istruiti anch’essi nell’agiografia, nella liturgia e nell’antropologia culturale, si sforzino di realizzare una sintesi pastorale tra la presentazione biblica delle verità della fede e le caratteristiche personali dei Santi, che vengono celebrati come Patroni e che vengono proposti ai fedeli come esempi di santità; e sappiano illuminare le persone sulla differenza tra le vere forme di pietà cristiana e le forme devianti.

[11] Cf. le indicazioni date da: CONGREGAZIONE PER L’EDUCAZIONE CATTOLICA, Doctrina et exemplo, Istruzione sulla formazione liturgica dei seminaristi, 25 dicembre 1965; IDEM, In ecclesiasticam futurorum, Istruzione sulla formazione liturgica nei seminari, 3 giugno 1979.